La musica? È apatica Ecco perché preferiamo Beyoncé alla «Traviata»

La lirica è morta (oppure, se vogliamo essere ottimisti, è moribonda) perché è morta la passione per la vita. E la passione per la vita è morta perché è scomparsa la presenza della morte.
Erano anni che volevo trovare una ragione intellettuale alle mia insofferenza quasi fisica verso il melodramma e l’ho trovata adesso, quasi per caso, leggendo una piccola ma informatissima biografia verdiana: Giuseppe Verdi. Vita di un uomo di Gustavo Marchesi (Fedelo’s editrice). L’ho letta perché se è vero che alla Traviata preferisco Beyoncé, e al coro del Nabucco un qualsiasi brano di Nick Cave, è altrettanto vero che trovo il Verdi uomo oltremodo interessante: vado pazzo per questo personaggione ottocentesco che viveva nel culto della libertà (soprattutto della propria, un po’ meno di quella degli altri), artista orgogliosissimo e scaltro, orso ma all’occorrenza mondano, patriota con una certa tendenza all’armiamoci e partite, insomma un monumentale arcitaliano. Gustavo Marchesi, che ha insegnato storia verdiana all’università e al conservatorio, che ha fondato l’istituto nazionale di studi verdiani, che sulle opere verdiane e sugli interpreti verdiani ha scritto mille libri pubblicandoli con piccoli editori ducali come Fedelo’s e grandi editori repubblicani quali Utet, Skira, Bompiani, insomma uno che del cigno di Busseto ne sa qualcosa, regala al lettore purissime perle di alterigia verdiana tratte dallo sterminato epistolario e dal corpus degli aneddoti: «Io non mi cavo il cappello né a conti né a marchesi, a nissuno»; «Io in casa mia faccio quello che voglio!»; «Io ho per abitudine di non immischiarmi, se non chiesto, negli affari degli altri, perché appunto esigo nissuno s’intrighi de’ miei»…
Vorrei compiangere i librettisti e le donne e i dipendenti che dovettero sopportare un simile cattivo carattere ma non sono qui per scrivere un articolo sulle contraddizioni del genio, sono qui per dire che la nuova biografia, malgrado la sua estrema sintesi o forse proprio in virtù di questa, mi ha fatto capire quanto la morte sia stata presente e determinante nella vita di Verdi. Nel 1838 gli muore la primogenita Virginia: aveva solo un anno. Nel ’39, nemmeno il tempo di riprendersi, gli muore il secondogenito Icilio, di quindici mesi. Nel ’40 gli muore la moglie, l’amata e devota ventiseienne Margherita Barezzi, proprio durante la composizione dell’opera buffa commissionata dalla Scala, Un giorno di regno. Sai che allegria, nella casa di via Cesare Correnti, e quanta voglia di musicare Sì festevole mattina… Bisogna ricordarsi che all’epoca le persone morivano quasi sempre in casa: il compositore avrà lavorato col sottofondo del rantolo della moglie in agonia. Non era una condizione straordinaria, non è che Verdi si potesse considerare particolarmente sfortunato: nell’Ottocento la mortalità infantile era ancora altissima, le donne rischiavano le penne a ogni parto, e chiunque poteva morire dall’oggi al domani per una qualsivoglia malattia infettiva. Ovvio che una vita la cui brevità era a tutti evidentissima fosse vissuta più intensamente, ovvio che la conseguente enfasi sentimentale traboccasse in musica. Mentre l’odierna sterilizzazione della morte, allontanata nel tempo (si muore sempre più vecchi) e nello spazio (si muore quasi sempre all’ospedale o comunque non in casa alle presenza dei famigliari), fatalmente conduce ad amare e a comporre in modo minimale.
La musica elettronica che sono solito ascoltare, brani all’apparenza freddi e impersonali come quelli di Jon Hopkins o Tim Hecker, forse non piacerà agli amici melomani che tuttavia non potranno negare la sua aderenza allo spirito del nostro tempo. Mentre io, che non andrei ad ascoltare la Forza del destino neppure se mi regalassero un intero palco del Regio di Parma, che fra parentesi si trova a soli 600 metri da casa mia e quindi sarebbe pure comodo, non posso negare che quest’opera ben rappresenti l’Ottocento e un compositore al quale le disgrazie, come ricorda Marchesi, non mancarono mai: nel 1852 gli muore il librettista Cammarano, appena cinquantenne, mentre insieme stavano scrivendo Il trovatore; nel ’61 l’amico Cavour, cinquantenne pure lui, che lo aveva portato in parlamento e col quale stava impostando la riforma del sistema teatrale italiano; lo stesso anno gli si ammala (morendo di lì a non molto) la cantante trentaquattrenne Emma Lagrua, trasformando quella che doveva essere una prima trionfale a San Pietroburgo in un «abisso di guai»…
Troppi drammi dietro al melodramma e forse anche Verdi, potendo scegliere, avrebbe preferito vivere in questo tempo di musica apatica e antibiotici.

Camillo Langone
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