Il lupo di Wall Street sbrana gli "agnellini di Piazza Affari"

I lupi di Piazza Affari non ci stanno. Jordan Belfort «è troppo». Calcato, esagerato, eccessivo. «Sono situazioni datate, ferme a quell’epoca», osserva un distinto signore in grisaglia con gemelli ai polsi e pochette nel taschino. Ancor più scettico Massimo Tononi, presidente di Borsa italiana, organizzatrice dell’evento: «Ho lavorato in Goldman Sachs a Londra e circostanze come quelle raccontate da Scorsese non le ho mai incontrate», confida l’ex consulente di Romano Prodi e attuale membro del board della London Stock Exchange. «Sono forzature cinematografiche». Eppure, presentando la serata a Palazzo Mezzanotte in Piazza Affari a Milano, l’amministratore delegato della Borsa Raffaele Jerusalmi aveva scherzato: «Chissà se tra voi ci sarà chi si riconoscerà in qualcuna delle scene iniziali». Sul palco, giusto a un mese dalla quotazione della Leone Film Group ci sono anche i fratelli Andrea e Raffaella, figli del leggendario Sergio e distributori, insieme a Raicinema, di The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese (in sala dal 23 gennaio). Cadendo nel giorno dell’ufficializzazione delle cinque candidature all’Oscar (miglior film, regia, attore protagonista, attore non protagonista e sceneggiatura non originale) l’anteprima glamour non poteva risultare più indovinata. Entrando, ci si è lasciati alle spalle il “dito” di Cattelan, beffarda condanna di un intero mondo. Ora, dopo il cocktail di benvenuto, broker e finanzieri si accomodano nelle prime file. Tra gli altri, il presidente di Generali Gabriele Galateri; l’amministratore delegato di Luxottica Andrea Guerra; il presidente di Cir Rodolfo De Benedetti con la moglie Emmanuelle De Villepin; Massimo Capuano, presidente di IW Bank, con la figlia Costanza; Andrea Tessitore, ad di Italia Independent. Buio in sala e sul grande schermo irrompe Leo DiCaprio alias Jordan Belfort, «miliardario a 26 anni, carcerato a 36». È lui stesso a raccontare la sua vertiginosa ascesa, rivolgendosi direttamente al pubblico, sguardo dritto in camera. Telefonista alla L.F. Rothschild, il giovane Belfort finisce sotto l’ala protettiva di Mark Hanna (Matthew McConaughey), yuppie di successo che lo inizia ai segreti dell’ambiente, cocaina e onanismo, indispensabili per autogestire l’altalena emotiva nel regno di Orsi e Tori. Il crac dell’ottobre 1987 e il fallimento della società sono il primo brusco risveglio dal sogno americano. Tocca subito ricominciare. Ma gli insegnamenti sono solidi e l’ambizione famelica. In un magazzino di periferia, Belfort fonda la Stratton Oakmont che spinge all’estremo la tecnica del «pump and dump», gonfiare e sgonfiare i titoli spazzatura per ottenerne guadagni favolosi. «Il di più non basta mai» è la filosofia del nevrotico broker. E il successo che ne deriva si misura in Ferrari (bianca), Bentley, ville, yacht da 52 metri con eliporto incorporato, vacanze a Portofino, donne, prostitute divise in categorie e tariffe differenziate. E soprattutto cocaina, tanta e indispensabile. E morfina e pasticche assortite. Senza freni. Per tre ore di film, la vita di Belfort carambola da un eccesso a una truffa, da un briefing motivazionale a un’orgia con sniffata dal fondoschiena di una puttana, dalle gare di lancio dei nani alle pisciate sui documenti dell’Fbi che intanto si è fatta viva. Il tutto in un clima di esaltazione collettiva, sideralmente distante dal tempo in cui siamo. La platea partecipa divertita alle situazioni più estreme nelle quali incappano Belfort e il suo socio Donnie Azoff. Ma qualcuno, Galateri e figlia e De Benedetti e signora, abbandona la visione in anticipo. In effetti, Scorsese spinge le situazioni al limite del grottesco. Evitando qualsiasi sottotesto moralistico, mostra di voler rappresentare soprattutto la sfrontatezza di un mondo votato all’accumulo del denaro, talmente tanto da non sapere come spenderlo. E forse proprio nell’assenza di morale sta la freschezza del film. Sui titoli di coda partono gli applausi che misurano ironia e distanza della platea dalla storia narrata. Una storia nella quale i «lupi di Piazza Affari» non si riconoscono. Sono situazioni «casuali ed episodiche», avverte Jerusalmi. Quegli eccessi non sono compatibili con i controlli introdotti dal sistema. E nemmeno con le esigenze di lucidità che la specializzazione della finanza richiede negli ultimi anni. «Sì, forse qualcuno che fa il pirla ci può ancora essere. Ma sono fatti suoi». All’installazione di Cattelan che ci aspetta all’uscita, certamente DiCaprio risponderebbe con lo stesso gesto.

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Maurizio Caverzan

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