il commento 2 «Gli anni spezzati» fa infuriare i gendarmi della memoria

In Italia esiste un solo modo di raccontare la storia: quello approvato dai gendarmi della memoria (copyright Giampaolo Pansa). Tutto il resto ricade nella categoria del «revisionismo». Naturalmente rivedere, ripensare e reinterpretare i fatti (magari esibendo nuovi documenti) è il lavoro di ogni storico che si rispetti. In realtà le accuse di «revisionismo» non sono altro che il mezzo preferito dalla sinistra più dogmatica per liquidare gli argomenti altrui, evitando così la fatica di prenderli in considerazione. È quello che sta accadendo alla fiction di Raiuno Gli anni spezzati, massacrata sui social network e ieri su Repubblica a tutta pagina. È difficile capire in cosa Gli anni spezzati sia «revisionista» visto che le prime due puntate, dedicate a Luigi Calabresi, non hanno fatto altro che sottolineare i fatti, mettendone in luce anche le ambiguità, laddove ne restino (e ne restano). Evidentemente, ci sono cose che è tuttora impossibile dire con chiarezza: non c’era soluzione di continuità tra una certa borghesia meneghina e il terrorismo; Lotta Continua condusse una campagna d’odio contro Calabresi; settecento e passa intellettuali firmarono una lettera aperta, pubblicata sull’Espresso, che deleggittimava e isolava il Commissario; esiste una sentenza definitiva che condanna Ovidio Bompressi e Leonardo Marino come esecutori del delitto Calabresi oltre a Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri come mandanti. Nessuno aveva ancora «osato» tanto in prima serata su un canale del servizio pubblico. Avere infranto questo tabù è il grande pregio di una fiction piena di difetti. Di fronte alla novità di vedere rappresentata, per una volta, la storia di quegli anni dal punto di vista di un servitore dello Stato, sembra miope fissarsi sui capelli da Big Jim di Solfrizzi-Calabresi o sul doppiaggio scadente o sul poster fuori contesto. La sostanza è che, ne Gli anni spezzati, non c’è traccia della «meglio gioventù», dell’autoindulgenza da ex sessantottino. È stata scelta una prospettiva diversa, un po’ semplificatoria, come è normale in questi prodotti, ma che merita rispetto (come tutte le altre). Di recente, è stato coperto di premi Romanzo di una strage, il film di Marco Tullio Giordana dedicato in gran parte agli stessi avvenimenti. In quella elogiata pellicola, di Lotta Continua non c’era quasi traccia. In compenso c’era la teoria della doppia bomba in Piazza Fontana. Teoria archiviata dal tribunale di Milano. Quella sì che era una ricostruzione molto discutibile. Nessuno ha fatto una piega. Come mai?

Alessandro Gnocchi
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