È l’anno dei giovani i big non riescono a suonare la carica

nostro inviato a Sanremo

Eddai diciamolo. Appena un po’. Sottovoce. Oppure tutto d’un fiato: i giovani in gara al Festival di Sanremo forse forse, quasi quasi, sono meglio dei big. Per carità, non si discutono le singole canzoni. O le voci. O le storie che talvolta, come nel caso di Ron o di De André o di Antonella Ruggiero, manco si possono discutere. Però forse gli otto giovani sgarrupati che si giocano il Festival hanno avuto un pizzico di coraggio in più, qualche necessario bisogno di rischiare, l’indispensabile friccicorìo di chi o la va o la spacca.

«La canzone di Zibba “rolla” che è un piacere», spiega Andrea Mirò che lo dirige in Senza di te. Per capirci, Zibba è un savonese di Varazze, non certo di primo pelo e pure paffutello, ma con un tiro e una profondità compositiva che uno si chiede: ma davvero è solo tra i giovani esordienti? D’altronde anche Mauro Pagani, supercapo della commissione che ha composto il cast musicale del Sanremo, qualche giorno fa si è sbilanciato: «Non dovrei dirlo ma le cose migliori le ho ascoltate tra i ragazzi e non tra i big». Ovviamente, come quasi sempre capita in Italia, tutti i giornaloni i giovani manco se li sono filati. Eppure. Eppure ci sono canzoni come quella di Filippo Graziani (Le cose belle) che hanno i carati da big e lasciate perdere il solito retrogusto sospettoso: sì lui è figlio di Ivan, ma ha iniziato anni dopo la morte del padre, ha fatto una sacrosanta gavetta rock (ha pure aperto l’unica data italiana di Zakk Wylde, chitarrista di Ozzy) e ha intersecato la memoria del padre solo dopo, con il progetto Viaggi e intemperie. Detto così, a scatola chiusa, si potrebbe piazzare bene in questo Festival d’autore.

Idem Rocco Hunt che magari al pubblico più agée scatenerà al massimo un grande boh ma è già un quasi idolo dei ragazzini. Soprattutto social. Intanto è un rapper. È giovanissimo. Scrive con una fluidità di rima assai inconsueta per uno che non ha neppure compiuto vent’anni. E lo fa da cantautore, non da hiphopparolo. Insomma Nu juorno buono, che ovviamente tradisce la provenienza di Rocco Hunt (case popolari nella zona orientale di Salerno), prova a parlare con lingua giovane di un problema vecchio. Del quale peraltro si parla da tempo: la terra dei fuochi, quella inquinata dai rifiuti tossici in Campania. Un po’ guaglione. Un po’ riflessivo. E pure ganzo, visto che alle ragazzine piace, eccome se piace, a giudicare da come lo seguono e lo applaudono sui social. Senz’altro è uno del quale si parlerà, Sanremo o no.

Invece di The Niro (ossia un romanissimo Davide Combusti) si parla da un pezzo perché nel 2010 ha pubblicato un disco cantato in inglese da capo a fondo e assai riverito dai critici, anche all’estero. Adesso che è tornato a cantare in italiano si presenta a Sanremo giusto un attimo prima della pubblicazione del cortometraggio Caserta Palace Dream che ha come protagonista l’Oscar Richard Dreyfuss e come curatore della colonna sonora, ebbene sì, proprio The Niro, uno che ha suonato con Jonsi dei Sigur Ros e con i Deep Purple, per render l’idea dell’eclettismo. E se Veronica De Simone, transitata a The Voice e assai maturata dopo esserne uscita, ha un coté che non può non colpire al primo colpo, Diodato è mediterraneo di brutto, Bianca ha una voce difficile da eguagliare e Vadim è il più imprevedibile di tutti, con quel volto a metà fra Tony Montana e Mino Reitano e una canzone con il titolo giusto per riassumere gli otto giovani in gara: La modernità. Quella che, qui e là, ai big talvolta manca almeno qui, al Festival che dovrebbe sdoganare il futuro.

La prima vera sorpresa: gli esordienti tirano fuori il coraggio che manca a molti concorrenti famosi

Speciale: 

Paolo Giordano

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