Potere al telecomando «Burning Bush» è una miniserie da studiare

«Firmato: Fiaccola numero 1», ovvero Jan Palach. La sua storia e soprattutto i fatti dopo il suo tragico sacrificio umano contro l’invasione sovietica che, nell’agosto del 1968, mise fine alla Primavera di Praga, sono al centro di Burning Bush – Il fuoco di Praga, la miniserie messa in onda con merito da Raitre (venerdì e sabato, ore 21,05, share del 2,66 nel primo episodio). Si tratta di una produzione HBO Europe, diretta da Agnieszka Holland e presentata in anteprima al Rotterdam Film Festival.
La storia si apre proprio con il gesto estremo dello studente ventenne che si cosparge gli abiti di benzina e si dà fuoco davanti alla scalinata del Museo Nazionale in Piazza Venceslao. Non si vedono preparativi, non sono mostrate motivazioni, l’atto è isolato e silenzioso. Ma da quel tragico martirio matura e si espande la presa di coscienza del movimento degli studenti e di protesta contro il ripristino della censura e il ritorno a politiche sociali ed economiche precedenti al rinnovamento introdotto da Alexander Dubcek. «Poiché i nostri popoli sono sull’orlo della disperazione e della rassegnazione» scrisse Palach nella lettera di rivendicazione del suo gesto, «abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l’onore di estrarre il numero 1, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana». Dopo la morte, la famiglia dello studente s’impegnò affinché le ragioni della sua protesta non venissero mistificate dal regime attribuendole e un inesistente movimento di destra. Protagonista è la giovane avvocatessa Dagmar Buresova che accetta di aiutare madre e fratello di Jan nella causa contro il funzionario responsabile della macchina del fango. Dispiace che una serie tanto ben fatta non abbia trovato adeguata visibilità e riscontro di pubblico.
Burning Bush andrebbe mostrata nelle scuole e nelle università. E andrebbe presa ad esempio da produttori e sceneggiatori nostrani. Non c’è un volto, una parola, una situazione approssimata. Non c’è un fotogramma in eccesso. Perfetti l’alternanza tra bianco e nero e colore, l’accompagnamento musicale, la scelta degli attori e il bilanciamento delle psicologie con i dubbi che attraversano il volto del «compagno maggiore» della polizia praghese. Anche grazie alle ambientazioni che non hanno nulla da invidiare al cinema, ci si immerge nello stesso clima de Le vite degli altri, vent’anni prima.
Twitter@MCaverzan

di Maurizio Caverzan

Redazione
Leggi Tutto

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *